Il decreto sul diritto allo studio e i vecchi principi costituzionali

Uno degli otto decreti approvati in attuazione della legge delega sulla scuola del governo Renzi, pubblicato il 16 maggio sulla Gazzetta Ufficiale, è dedicato al diritto allo studio. Ad esso, ingiustamente, è stata riservata poca attenzione.

L’oggetto e le finalità del provvedimento delegato appaiono, all’articolo 1, particolarmente ambiziose perché ci si pone l’obiettivo di “perseguire su tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo studio degli alunni e degli studenti fino al completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado”, di definire “le modalità delle prestazioni in materia di diritto allo studio, in relazione ai servizi erogati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali nel rispetto delle competenze e dell’autonomia di programmazione di ognuno” e di individuare i “requisiti di eleggibilità per l’accesso alle prestazioni da assicurare sul territorio nazionale e i principi generali per il potenziamento della Carta dello studente”.

In realtà, ed è questo il principale elemento di debolezza del decreto, negli articoli che seguono non si trova traccia della “definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, sia in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio, sia in relazione ai servizi strumentali” che la legge delega, all’art. 2, commi 180 e 181, lettera F), indicava come compito principale di questo provvedimento.

Il motivo di tale omissione è facile da comprendere: il testo ripete, quasi ad ogni articolo, le formule del “compatibilmente con le effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente” e del “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

È evidente che in assenza di uno stanziamento adeguato, eventualmente pluriennale e programmatico, anche da incrementare gradualmente per raggiungere determinati obiettivi entro una certa data, non diventa possibile individuare dei livelli minimi di prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale. Sarebbe infatti incostituzionale una legge che, stabilendo determinati diritti, non procedesse contestualmente a quantificare gli stanziamenti di bilancio necessari per darle effettiva copertura finanziaria.

È così che, nella ristrettezza delle risorse, il decreto sul diritto allo studio si limita, quasi esclusivamente, ad effettuare una ricognizione, in leggi già esistenti, delle competenze dei vari soggetti istituzionali, deludendo in tal modo quanti speravano in un salto di qualità nel modo di affrontare tutta la materia.

Gli stanziamenti, per l’esattezza, non sono del tutto inesistenti in quanto, e questi sono aspetti positivi del provvedimento, è stato previsto l’importo di euro 29,6 milioni di euro per l’esonero totale dal pagamento delle tasse scolastiche d’iscrizione alle quarte e alle quinte della secondaria di II grado, oltre a 39,7 milioni per le borse di studio, 10 milioni per l’acquisto di sussidi didattici nelle scuole che accolgono alunni con disabilità e, infine, 10 milioni per l’acquisto da parte delle scuole di libri di testo e di altri contenuti didattici, anche digitali, per il comodato d’uso dalla primaria fino alle classi dell’assolvimento dell’obbligo.

Si tratta complessivamente di circa 100 milioni di euro che, solo in parte, compensano il taglio di quasi 150 milioni di euro, stanziati per il diritto allo studio dalla legge 10 marzo 2000, n. 62 e poi quasi azzerati in conseguenza del disposto dell’art. 14, c. 2, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, nell’ambito della riduzione di trasferimenti alle regioni, finalizzato a conseguire la concorrenza di tali enti al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica.

La mancanza delle risorse e, conseguentemente, dell’individuazione dei livelli essenziali è stata motivo di pesanti critiche, in sede di Conferenza Unificata, da parte di Regioni, Province e Comuni. Anche nelle aule parlamentari la questione non è passata sotto silenzio. La commissione parlamentare competente presso la Camera dei Deputati, ha condizionato il suo parere favorevole alla raccomandazione “che in un successivo momento Stato, Regioni, Provincie autonome di Trento e Bolzano ed enti locali dovranno, nelle debite sedi e con le dovute procedure, definire i livelli essenziali di prestazione per dare compiuta attuazione all’articolo 1, comma 181, lett. f) della legge n. 107 del 2015”.

Questa raccomandazione, in realtà, ha solo il valore di un’affermazione politica di principio, poiché è noto che solo il legislatore delegato e nessun altro può farsi carico di individuare i livelli essenziali delle prestazioni e dei necessari conseguenti stanziamenti e neppure è possibile, né legittimo, che livelli di prestazioni da garantirsi sull’intero territorio nazionale, possano far carico unicamente ai bilanci delle regioni e degli enti locali.

A distanza di settanta anni esatti vien da rileggere la relazione che accompagna il primo progetto di Costituzione, datata 6 febbraio 1947 a firma dell’onorevole Meuccio Ruini, presidente della Commissione incaricata dall’Assemblea Costituente alla stesura del testo da porre a base della discussione plenaria. Tale relazione presenta la parte sul diritto allo studio asserendo che: “Uno dei punti ai quali l’Italia dovrà tenere è che nella sua Costituzione, come in nessun’altra, sia accentuato l’impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell’istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti, ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative di riconoscere, anche qui, un diritto della persona di utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera ed integrale democrazia”.

Su queste basi ideali è stato poi scritto l’art. 34 della Costituzione che recita: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze”. E non si tratta unicamente di garantire la dimensione temporale del periodo di studi ma anche di assicurare la qualità di percorsi formativi che dovrebbero fornire competenze e saperi tali da favorire l’acquisizione di strumenti che permettano il “pieno sviluppo della persona umana” e “l’effettiva partecipazione di tutti” all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 della Costituzione).

La critica per la scarsità delle risorse per il diritto allo studio, quindi, non rappresenta una mera rivendicazione economica perché contiene la richiesta di proseguire nell’attuazione dei principi costituzionali e di non tornare indietro all’ottocentesco concetto di “assistenza scolastica” che la Costituzione ha cancellato in modo definitivo, rigettando l’idea che gli interventi per favorire l’accesso e il successo dei percorsi d’istruzione e formazione siano connessi unicamente a condizioni di disagio socio-economico in cui possono trovarsi parte degli studenti.

Anche entrando nel merito del modo in cui è stata fatta la ricognizione delle competenze dei vari soggetti nell’ambito dei servizi di trasporto, di mensa, di fornitura di libri di testo e borse di studio, oltre che di scuola in ospedale e di carta dello studente, il decreto non si è posto il problema di avviarne un indispensabile rinnovamento, alla luce dei cambiamenti normativi, sociali e culturali, che sono avvenuti negli ultimi decenni.

Quando furono scritte le normative che nel decreto sono riepilogate e riproposte, non c’era l’autonomia degli istituti scolastici, la mensa era un intervento rivolto prevalentemente agli alunni meno abbienti, i libri di testo gratuiti erano rivolti soltanto agli alunni della scuola elementare, le borse di studio non esistevano se non alla fine della scuola superiore. E se qualcuno avesse utilizzato l’espressione “mobilità dolce e sostenibile” avrebbe suscitato ironia in tutti i suoi ascoltatori.

La scuola era considerata “minorenne” e tutti la dovevano assistere e condurre. Primo tra tutti, naturalmente, lo Stato centrale e poi venivano le province e i comuni che, oltre a fornire i bidelli (allora si chiamavano così ed erano dipendenti degli enti locali), si occupavano anche dei servizi strumentali e di supporto, delle cosiddette “funzioni serventi”, oltre che dell’edilizia scolastica. Solo con il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, agli enti locali sono state attribuite ulteriori funzioni di pianificazione e programmazione della rete scolastica e dell’uso degli edifici e delle attrezzature.

Massimo Nutini, esperto di politiche scolastiche, pubblica istruzione ed enti locali