Dare senso all’organizzazione scolastica: la cultura professionale del “tornare sulle cose”

 

Per dare senso al nostro esserci nella vita in generale ed al nostro procedere nella giornata lavorativa, considerata come unità temporale  all’interno di una ben precisa organizzazione del lavoro, spesso individuiamo scopi e progettiamo fini, orientiamo le nostre attese a delle mete che ci prefiggiamo di raggiungere e in relazione ai risultati di percorso ottenuti; insomma,  bene o male valutiamo i nostri comportamenti.  Anche un’organizzazione lavorativa cerca di dare un “senso” alla propria natura e, conseguentemente, al proprio esistere. Evidentemente l’organizzazione del lavoro non scaturisce e non ha come risultato la somma degli scopi e dei fini dei singoli individui che la compongono, poiché la stessa è data, in termini olistici, dalle interrelazioni, dagli scambi comunicativi, dalle decisioni assunte, dalle validazioni consensuali che i protagonisti del sistema in atto agiscono e si attribuiscono come strutturazioni di ruolo.

Questa storia collettiva è, dunque, un po’ più complessa rispetto ad una individuale.

Scopriamo, però, che anche le organizzazioni nella loro ricerca di “senso” vivono le stesse paure, le stesse ansie e frustrazioni tipiche della soggettività umana, in quanto l’esistenza di regolamenti, di tecniche di esecuzione dei compiti, di specializzazioni, di situazioni logistiche, di immaginari personali collegati al sistema gestionale, a quello operativo e a quello informativo, rende gli organismi autori non solo di funzioni, ma anche, e soprattutto, di vissuti emozionali, apprenditivi, orientanti e più o meno consapevoli.

Proprio per cercare di capire e rendere produttive le organizzazioni umane, negli ultimi 50 anni gli studi sull’organizzazione del lavoro si sono notevolmente sviluppati abbandonando, in modo sempre più deciso, concezioni tayloristiche secondo cui la soluzione dei problemi era legata alla realizzazione di un’organizzazione obiettivizzata, ossia definibile secondo le due polarità di ‘organizzazione’ e di ‘personale’, per cui il personale si adattava all’organizzazione, accettandola così com’era. In tal modo, si arrivava ad una concezione di eliminazione delle forme meno convenienti di produrre ed al controllo delle modalità di esecuzione dei compiti che devono essere svolti attraverso microfasi omogenee di lavoro. Alla scuola di F.W. Taylor reagirono prima i sociologi H. Spencer e M. Weber, i quali proposero, invece, un concetto di organizzazione inseparabile dalle funzioni che essa assolve, e poi E. Majo che centrava il lavoro sull’idea di motivazione. Anche in questo caso, però, l’organizzazione restava prioritaria rispetto all’uomo.

È con la teoria sistemica che l’impostazione concettuale dell’argomento viene ad essere bilanciata sulle diverse variabili organizzative, per cui risorse umane, materiali, tecnologiche e finanziarie costituiscono l’input della struttura organizzativa, mentre la combinazione e la trasformazione flessibile delle risorse ne costituiscono il processo; il prodotto/servizio erogato è, infine, l’output.

La ricerca di senso nell’apprendere organizzativo

Se le strategie di empowerment nella scuola riguardano tre livelli, ossia il personale, l’organizzativo e la comunità, tutti e tre essi dovrebbero essere presenti nell’accezione che si ha del proprio ruolo di operatori scolastici consapevoli, poiché è attraverso tale visione tridimensionale che è possibile diventale attori di un’organizzazione che apprende. P.M. Senge, nel suo libro “The fifth discipline”, ha sostenuto che “attraverso il dialogo, un gruppo esplora questioni complesse da molti punti di vista diversi. Gli individui non si arroccano sui propri assunti, ma li comunicano liberamente. Il risultato è una libera esplorazione di idee che porta in superficie tutta la profondità delle esperienze e del pensiero umano e, al tempo stesso, riesce ad andare oltre le singole visioni individuali”.  “Attraverso il dialogo, la gente osserva il proprio pensiero”.

Ecco, dunque, che chi vive nell’organizzazione scolastica può rientrare in tre tipi di circuiti (loop) che sono strategici per un apprendimento double loop, attraverso cui il sistema scuola non si limita a correggere l’errore in vista del miglioramento delle prestazioni/performance come avviene nel single loop, ma tende alla messa in discussione degli assunti di base per attivare il processo deteuro-learning, ossia dell’“imparare ad imparare”, non accontentandosi di quanto gli deriva dalle esperienze passate o dalle conseguenze dei vari comportamenti messi già in atto, ma avvalendosi, con la gestione dei single e dei double, oltre che di quelle dei propri decisori, anche delle visioni “competenti” di più attori, quali sono appunto gli insegnanti.

La scuola che, attraverso regole formali ed informali, ad alta e bassa prescrittività, diviene organizzazione in grado di agire in vista di fini da perseguire, ovvero agency, può rendere il lavoro come:

  • apprendimento contestualizzato di appropriazione graduale di conoscenze e competenze chiave (core competence) e competenze tacite, risultato della operatività dei saperi;
  • mezzo tra apprendimento cognitivo ed innovazione organizzativa, che coinvolge tutti i suoi membri che, avvalendosi di adeguati supporti tecnologici ed informatici, rende flessibile la comunicazione interna;
  • contesto osmotico tra organizzazione, ricerca e sviluppo che produce sperimentazione micropedagogica documentabile a livello di istituto;
  • ricchezza di informazioni di informazioni e complessità di circuiti comunicazionali top down e bottom up esterni ed interni;
  • sensemaking, attento al divenire e ai processi e sensemaking euristico derivante dalle azioni congiunte di più protagonisti attenti alle diverse variabili intervenienti nel sistema;
  • valorizzazione funzionale della “teoria della dissonanza” per la revisione dei significati allo scopo di un più solido comportamento decisionale dei protagonisti;
  • interscambio socio-affettivo e cooperazione cognitiva.

L’utilizzazione e la riorganizzazione delle conoscenze emergenti dall’esperienza di lavoro, che è individuale, ma anche situata in un contesto di azioni e di pratiche modellate socialmente, apre lo spazio alla ricerca, a ciò che J. Dewey in “Logica e teoria dell’indagine” definiva inquiry, ossia all’intreccio di pensiero ed azione il cui rapporto si basa sul dubbio.

Così, nelle scuole dell’autonomia, apprendimento e ricerca sono strettamente connessi, perché entrambi agiscono all’interno di una situazione problematica con lo scopo di trovare soluzioni efficaci. L’apprendimento si realizza con il fare formazione continua ed è ciò che un’organizzazione che impara deve saper attivare.

Secondo G. Alessandrini è possibile distinguere quattro livelli tassonomici dei modelli metodologici per perseguire il cambiamento professionale:

  1. pedagogico: la formazione è vista come incremento di conoscenze ed abilità che consentono l’esercizio della professione o di un ruolo. Se centrato sull’apprendimento, tale approccio può comportare una visione “gerarchica” delle attività con l’indicazione di priorità sulla base di un fattore particolare, e dunque, anche una visione “sincretica” –come nella tassonomia cognitiva di B.S. Bloom e nell’apprendimento gerarchico di R.M. Gagnè-. Se centrato sull’insegnamento, tale approccio può disporre di una procedura “lineare”, per cui la sequenza degli argomenti trattati dal docente segue la logica della disciplina e del manuale, oppure di una “modulare”, collegata alle teorie del curricolo;
  2. andragogico: si basa sull’idea di formazione globale dell’adulto, inteso come persona che deve modificare se stessa rispetto ad obiettivi e ruolo secondo quanto richiesto dall’organizzazione in cui opera. Tale modello può manifestarsi in quattro approcci, ossia quello “psicosociale”, che è un autoapprendimento derivante dall’adattamento all’ambiente il cui obiettivo è il miglioramento dell’individuo conseguito con l’agevolazione del processo comunicativo che intesse con il gruppo; quello “clinico”, in cui è sempre fondamentale il sostegno all’autosviluppo della persona grazie alla relazione con l’altro perseguito con l’applicazione dei modelli psicoanalitici e psicoterapeutici alla formazione dell’individuo; quello dello “sviluppo organizzativo”, per cui la formazione viene correlata fortemente alla diagnosi delle problematiche di impresa e come cambiamento progettato a supporto del management piuttosto che della dimensione di ricerca; infine, quello dell’“apprendimento organizzativo”, che secondo teorie psicologiche ecologiche, tende ad interpretare la formazione come processo di crescita del ruolo strettamente legata alla lettura dei contesti organizzativi e culturali;
  3. tecnologico: dà molta rilevanza all’uso dello strumento multimediale come generatore di apprendimento in quanto in grado di creare nuovi dispositivi per l’azione come le aule multimediali, gli ipertesti configurati in diapositive, slides, cdrom etc., e valorizzando un linguaggio integrato che potenzia soprattutto la didattica iconica. Inoltre, ha dato l’avvio alla formazione elearning a distanza;
  4. socio-educativo: vede la formazione come contributo al sociale e potenziamento della capacità euristica del soggetto in tal senso. Tre gli sono gli approcci di tale modello: quello della “ricerca-azione”, che prevede la figura del formatore/ricercatore quale agente di cambiamento che svolge il ruolo di consulente, facilitatore o amico critico dell’organizzazione; quello “socio-educativo”, per cui i membri evolvono con modalità organizzative attivate attraverso i gruppi; infine, quello di “formazione-intervento” per cui il formatore aiuta l’organizzazione agendo su comportamenti personali e collettivi.

Con questa distinzione, che risulta naturalmente utile per razionalizzare le prassi più che la complessità delle strategie per indurre all’innovazione ed al miglioramento, si vuol mettere in evidenza come l’apprendimento di adulti professionisti -quali sono i dirigenti e i docenti- si vuole evidenziare che esiste un legame causa-effetto tra le routine comportamentali osservabili e le teorie dell’azione in uso, o modelli mentali. Questo legame può essere disvelato attraverso un’attività formativa ed in grado di indurre l’osservazione da parte degli stessi attori coinvolti in attività collettive di riflessione: la quale formazione, per configurarsi come apprendimento organizzativo, deve comportare cambiamenti delle teorie precedentemente in uso.

Come dice A. Munari si apprende solo ciò che fa senso nel contesto in cui si opera, e la ricerca in educazione, come azione che cerca sapere e tesa al miglioramento della pratica, non può prescindere da situazioni-problema reali quali le modalità di insegnamento, i processi e le strategie, la motivazione, i luoghi dell’apprendimento, le difficoltà e quant’altro possa rappresentare un tema da circoscrivere, in modo che sia gestibile come domanda di ricerca.

Assumere un atteggiamento orientato al cambiamento, alla flessibilità mentale e alla crescita culturale significa accogliere l’idea di una destrutturazione delle conoscenze foriera di avanzamento emotivo e cognitivo e comporta l’essere capaci di percepire un bisogno che richiede comportamenti innovativi per essere soddisfatto. La disconferma delle proprie convinzioni può provocare dissonanze cognitive le quali, anziché preparare la trasformazione, inducono ad affrontare l’eventuale disagio mentale con forme di rigidità percettiva e cognitiva come il pregiudizio.

Quanto maggiore è l’ansia, tanto più risulta ridotta la capacità di percepire forme innovative, ma la possibilità di ricevere dei feedback all’interno di un gruppo/unità organizzativa rappresenta il primo atto di una visione che non sia condizionata esclusivamente da punti di vista, ma che si apra alla riflessione, alla criticità, alla progettazione condivisa e, soprattutto, all’assunzione della flessibilità come atteggiamento mentale.

A differenza di una struttura di line, secondo cui i responsabili di un’organizzazione accentrano il potere decisionale limitando la delega ed esercitando una supervisione diretta su tutte le operazioni possono, i dirigenti del sistema scuola, in cui il fattore umano rappresenta la maggiore risorsa a garanzia della crescita qualitativa dell’organizzazione, scegliendo lo staff si offrono l’opportunità di sfruttare i vantaggi dati dalla divisione del lavoro – specializzazione plurifunzionale – e della valorizzazione di attività autonome, ma convergenti agli obiettivi di servizio, sorrette dalla motivazione e dalla coerenza, a garanzia della necessità di un processo continuo di adattamento alla mutevolezza ambientale ed alla dinamicità/incertezza interne all’organizzazione.

Il management scolastico, attraverso la leadership diffusa, che oltre agli aspetti razionali propri dei modelli manageriali classici considera gli aspetti affettivo-emotivi dei singoli operatori, richiede il decentramento decisionale e il determinarsi di altri leaders di organismi più ridotti (gruppi di lavoro, staff, referenti, etc.) che assumono responsabilmente microdecisioni all’interno dell’unità scolastica. Tali unità di base sono caratterizzate da una propria struttura e da competenze specifiche che operano all’interno dell’istituto del sistema scuola, esprimendone la messa in comune di potenzialità, ma anche di atteggiamenti culturali e comportamenti professionali in grado di garantire alla complessità dell’intera organizzazione la necessaria coerenza istituzionale di fondo; sono orientate al raggiungimento di obiettivi per perseguire l’esigenza di qualità dell’intero sistema; si costituiscono con composizioni e compiti adeguati di volta in volta alle necessità della scuola.

L’unità scolastica si delinea in tal modo come struttura a rete in cui sono fondamentali i rapporti che si instaurano tra l’azione del dirigente scolastico e quella delle componenti delle microorganizzazioni, la cui stabilità e funzionalità dipende dalla tipologia e dalla qualità delle relazioni che si instaurano all’interno ed all’esterno del sistema, e di queste ultime fra di loro, accomunate tutte nel raggiungimento di un unico obiettivo formativo che è quello di permettere agli studenti di poter apprendere ed adeguarsi a valori nuovi attraverso una pianificazione del cambiamento.

Il compito della scuola è quello di rinnovare il proprio ruolo sociale in un contesto di cambiamento e rinnovamento davvero sostanziale come quello attualmente avviato, caratterizzato da rilevanti interventi su aspetti fondamentali quali la produttività scolastica, la riforma degli organi collegiali[1], il riordino dei cicli, la formazione dei docenti e dei dirigenti, i diritti e doveri degli studenti e delle studentesse, l’elevamento dell’obbligo dell’istruzione, il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche statali e gli organici funzionali di istituto.

In tutti i Paesi Europei, le riforme legate all’autonomia scolastica, spesso attuate di pari passo con le misure di decentramento amministrativo, rinnovano le modalità dell’attività didattica, in particolare nella definizione dei contenuti dell’insegnamento, ampliando l’intervento degli insegnanti nei curricoli della loro scuola. I programmi scolastici interamente centralizzati sono di fatto scomparsi per lasciare il posto a una definizione dei contenuti di istruzione a più livelli che assegna ormai un posto significativo alla scuola e agli insegnanti.

Queste nuove autonomie didattiche possono essere ricondotte a tre principali modelli:

–      nel primo, che si potrebbe definire partecipativo e che si incontra in certi paesi nordici (Inghilterra e Danimarca) e dell’Europa centro-occidentale (Francia, Spagna e Portogallo), l’autorità centrale o superiore disegna un quadro generale che definisce a grandi linee i contenuti curricolari, dettagliati dalle collettività locali e dagli insegnanti;

–      nel secondo, solidaristico, lo Stato definisce obiettivi da raggiungere alle tappe chiave del percorso di scolarizzazione, lasciando un ampio margine di iniziativa agli istituti scolastici per definire i contenuti curricolari e dando così spazio alle cosiddette associazioni “ombrello”, rappresentative dei soggetti principali del sistema scolastico. È, in particolare, il caso dei Paesi Bassi e della Svezia;

–      nel terzo, territoriale, programmi stabiliti dallo Stato centrale coesistono a contenuti curricolari concepiti dagli attori locali (Finlandia).

Naturalmente, tale distinzione fa riferimento al tratto dominante dei sistemi, senza escludere la presenza di caratteristiche che sono comunque comuni a tutti.

In tutte queste tre nuove forme di organizzazione didattica, il docente non è più invitato ad applicare programmi centralizzati dettagliati, ma deve contribuire a definire degli insegnamenti tali da rispondere ai diversi bisogni degli alunni che accoglie l’istituto.

Alla standardizzazione didattica impostasi come modello prevalente dal XIX secolo nella maggioranza dei paesi europei, fanno dunque seguito insegnamenti più individualizzati la cui concezione rinnova ed ampia l’attività dell’insegnante, che deve sempre più misurarsi con il lavoro d’équipe, richiesto dalla struttura reticolare delle organizzazioni scolastiche autonome.

Dal burnout al desiderio di cambiamento

La struttura dell’organizzazione e la crescente complessità del sistema scolastico incidono in maniera diversificata, ma rilevante, nella determinazione del modello di management e, dunque, del clima organizzativo e dei processi decisionali che si attivano al suo interno: la relazionalità e convivenza degli elementi della propria soggettività lavorativa con le esigenze dell’organizzazione e dei suoi membri fa sì che si incentivino alcuni caratteri immateriali fondamentali per lo sviluppo di atteggiamenti democratici e partecipativi, come il senso di appartenenza e di identità, il prestigio, la solidarietà o l’intenzione altruistica, i quali svolgono una funzione premiante corrispondente ai benefici materiali connessi al denaro ed al posizionamento in carriera.

Nonostante ciò, gli insegnanti hanno, comunque, poca voce in capitolo nel decidere il contenuto del curriculum minimo obbligatorio, definito, in due terzi dei paesi a livello centrale.

Altre anomalie sono sotto gli occhi di tutti:

–      i sistemi formativi per la preparazione professionale del docente accertano le conoscenze del formando, ma non le sue effettive capacità didattiche. Il tirocinio ha fatto capolino anche nel nostro sistema universitario, ma i corsi di laurea per accedere all’insegnamento sono ancora in via di revisione. In nessun paese europeo si accede stabilmente all’insegnamento direttamente dalla scuola secondaria, ma lo si fa combinando insieme titoli, esami e tirocinio, ove previsto, in modo rigoroso;

–      la progressione di carriera è legata esclusivamente all’età e non alla valutazione della funzione e/o alla qualità del servizio svolto;

–      non esiste a tutt’oggi un piano serio di riqualificazione del personale eccedente;

–      il docente-tipo della scuola italiana è malpagato e malqualificato rispetto a molti altri esempi europei, sebbene ciò corrisponda anche a diversi parametri di considerazione contrattuale, come il minor orario di lavoro.

Molte indagini che si sono occupate di problemi psicologici della classe insegnante hanno dimostrato che il livello di motivazione del docente medio è bassissimo e, di riflesso, la stessa vita organizzativa non rappresenta più per l’individuo una situazione di possibile investimento della propria energia psichica e di gratificazione dei propri bisogni interiori.

Le conseguenze di questa energia non investita e di questi bisogni non soddisfatti si traducono in mancanza di creatività, competitività ed individualismo esasperato nei rapporti con gli altri, difficoltà nei processi di comunicazione, modesta disponibilità all’innovazione e, soprattutto, essendo deficitario il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, alto è il qualunquismo e l’assoluto distacco tra il proprio lavoro e l’individuo.

In particolare, C. Maslach, sin dalla prima metà degli anni 80, che ha analizzato la sindrome di burnout degli insegnanti, ha rilevato che questo fenomeno è risultante di tre principali elementi:

–      affaticamento fisico ed emotivo (emotional exhaustion and fatigue);

–      atteggiamento distaccato e apatico nei confronti di studenti, colleghi e nei rapporti interpersonali (depersonalitsation nd cynical attitude);

–      sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle proprie aspettative (lack of personal accomplishment).

Più recentemente, F. Folgheraiter (1994) introduce un quarto elemento descritto come perdita della capacità di controllo, cioè smarrimento di quel senso critico che consente di attribuire all’esperienza lavorativa la giusta dimensione.

Ecco che, nel corso degli ultimi venti anni, la promozione della qualità dell’istruzione è stata al centro delle politiche educative nella totalità dei paesi europei e ovunque sono stati individuati come principali motori della qualità lo sviluppo dell’innovazione didattica e la professionalizzazione del corpo docente.

In tutto ciò, però, si evidenzia un vero paradosso: tutti concordano sul fatto che oggi l’istruzione e la formazione di base sono sempre più cruciali per la vita e per il lavoro, ma nello stesso tempo in molti paesi la professione degli insegnanti perde prestigio e ha difficoltà ad attirare nuovi membri. Più la scuola diventa un’istituzione di fondamentale importanza in quella che è stata definita la knowledge society, sempre più gli insegnanti si percepiscono come appartenenti ad una categoria sociale il cui prestigio è in declino. Sono proprio queste nicchie di malessere che generano situazioni di stress negativo e disagio, che possono sfociare in vere e proprie patologie.

Da una recente ricerca di V. Lodolo D’Oria si è rilevato come gli stessi dirigenti scolastici desidererebbero una formazione specifica in merito al disagio mentale professionale dei docenti (96,8%), così come molto alta è stata la percentuale di coloro che considerano “molto utile” (87,1%) ed “abbastanza utile” (12%) l’attivazione di un servizio di consulenza a 360° (medico, amministrativo, giuridico) per un più sereno svolgimento del proprio ruolo per mettere gli insegnanti in grado di riconoscere i fattori predisponenti al burnout ed i segnali clinici premonitori. L’intervento formativo, inoltre, faciliterebbe il reinserimento lavorativo guidato degli insegnanti reduci da fasi di disagio psicofisico.

Gli stessi docenti, comunque, di fronte ad una remunerazione non competitiva, con scarse o nulle possibilità di carriera e/o riconoscimenti dei meriti professionali, alla complessità crescente delle competenze richieste, ad un ambiente di lavoro troppo burocratico e poco stimolante, chiedono un nuovo sistema di regole.

E’ quanto emerge da un’indagine commissionata dall’Associazione Nazionale Presidi a Nomisma nel 2009, che ha coinvolto 850 istituti scolastici selezionati seguendo un disegno campionario di tipo probabilistico complesso, e la partecipazione di 5.101 docenti. Il 66% degli insegnanti si è dichiarato favorevole all’introduzione di una valutazione della carriera basata sul merito, il 57% è convinto della opportunità di una differenziazione retributiva, il 58,4% auspica uno snellimento della burocrazia e se un docente su quattro è già pronto oggi  a valutare l’opportunità di un reclutamento diretto, tra gli interventi prioritari per il sistema scolastico italiano il 30% segnala la riorganizzazione degli ordinamenti ed il 25% la piena attuazione dell’autonomia scolastica.

L’indagine, infine, ha sondato il rapporto degli insegnanti con la propria rappresentanza, scoprendo cha la metà degli intervistati (il 49%) ritiene che i sindacati della scuola abbiano oggi una posizione debole nel promuovere con efficacia le innovazioni professionali.

Dati analoghi emergono dal rapporto sulla scuola in Italia, sempre del 2009, della Fondazione Agnelli: intervistati in merito alla differenziazione salariale e di carriera degli insegnanti –l’indagine è stata svolta in Piemonte, Emilia Romagna e Puglia-, il 67,8% dei docenti si dichiara favorevole alla considerazione di un diverso impegno nell’insegnamento, il 41,2 ad una professionalità misurata secondo standard regionali/nazionali, il 62,9% ad eventuali maggiori responsabilità organizzative e di coordinamento.

La maggioranza di questi intervistati, dunque, dimostra di essere consapevole delle cause che rendono la propria professione poco ambita e dimostra di desiderare che ciò possa cambiare anche con interventi giuridici e contrattuali relativamente alla propria carriera, come anche emerge la figura di un docente che ancora scommette su se stesso e crede nel suo lavoro e nella possibilità di giungere ad una reale riforma della scuola.

La progressiva contrazione della funzione educativa della scuola, del suo valore, della sua capacità di trovare soluzioni qualitativamente elevate ai problemi dell’apprendimento appare, forse, come la principale ferita da rimarginare.

Certo il talento del saper insegnare è dote che non tutti i docenti hanno in egual misura ed è il risultato di un complesso di fattori. Per migliorare la qualità dell’insegnamento si può, però, non solo riformare le modalità di reclutamento, ma anche rinnovare metodi e strumenti di insegnamento. Al centro delle preoccupazioni professionali vi è, infatti, anche l’efficacia dell’azione didattica. La rapida evoluzione della società richiede spesso un aggiornamento di conoscenze e competenze. L’aggiornamento professionale e la formazione rimangono così leve importanti per il miglioramento della qualità dell’insegnamento. Un percorso professionale non può dunque prescindere dall’opportunità di avere prospettive e capacità di innovare metodi e contenuti e dunque di elevare la qualità dell’insegnamento. Ne sono ben consapevoli i docenti, che per l’86% (indagine Nomisma) ritengono necessario un adeguamento continuo degli strumenti e dei metodi professionali.

La formazione in servizio diventa elemento imprescindibile per il miglioramento della qualità degli standard di insegnamento e dei risultati complessivi. Un impegno faticoso, che implica una costante ridiscussione del proprio ruolo, a cui tuttavia molti insegnanti si dichiarano pronti ad aderire per una valorizzazione della loro professionalità.

In questa prospettiva, la Comunicazione della Commissione Europea del 2007 sulla necessità di migliorare la formazione degli insegnanti individua la qualità dell’insegnamento come un fattore chiave del miglioramento dei risultati scolastici e della realizzazione degli obiettivi di Lisbona, oggi trasformati negli obiettivi per l’Europa del 2020. Riconosce nel contempo le scuole come ambienti di apprendimento autonomi e aperti in cui gli insegnanti sono chiamati ad assumere responsabilità crescenti riguardo al contenuto, l’organizzazione e la valutazione del processo di apprendimento.

Quando l’organizzazione apprende

La scuola, però, ove il prodotto scolastico, ossia l’apprendimento, diventa funzionale al processo, caratterizzandosi come learning organization, permette che ciò accada quando, come affermano M. Argyris e D.A Schön, gli attori dell’organizzazione apprendono per l’organizzazione, ovverosia allorché le informazioni, le esperienze, le scoperte, le acquisizioni di nuove conoscenze e competenze dal livello individuale transitano verso nuovi modelli di comportamento collettivo, fissandosi in valori condivisi, norme e regole, metafore e mappe mentali.

Seguendo la medesima impostazione teorica, M. Crozier e E. Friedberg parlano di azione strategica e sottolineano come l’apprendimento collettivo consiste nello scoprire e nell’introdurre nel gioco d’azione nuove routine, nuovi schemi comportamentali.

Ancora secondo Argyris e Schön, l’apprendimento organizzativo si ha quando gli individui sperimentano una situazione problematica e la indagano nell’interesse dell’organizzazione. Ciò comporta la messa in discussione delle teorie in uso.

Altri elementi importanti, sulla scia della teoria dello sviluppo organizzativo che si rifà all’approccio psicosociale di K. Lewin, di E. Mayo e di A. Maslow, vanno rintracciati di corollario al fatto che l’obiettivo centrale di un’organizzazione è quello di incidere sulle relazioni tra le persone, entrando nei processi di lavoro ed intervenendo sui gruppi, per favorire la massima integrazione tra individui ed organizzazione. In tal modo, attraverso quei valori che W. Bennis indica come comunicazione diffusa, consenso, ascendenza fondata sulla competenza e non sul potere, incoraggiamento all’esperienza emotiva quanto all’attività dipendente dal compito, mediazione del conflitto tra il soggetto e l’organizzazione quale elemento razionale da gestire, la gestione organizzativa può giungere a costituire un “noi”, caratterizzato dall’interdipendenza delle parti e dal distacco dall’esterno, pur continuando comunque a restare gruppo aperto.

Si tratta, secondo un modello di cultura organizzativa che potremmo definire orientato allo sviluppo del sistema di apprendimento, di costruire nella scuola un “gruppo democratico”, che vive e sperimenta la procedura democratica delle opinioni per arrivare, attraverso il confronto, alla presa delle decisioni, e che ha certo il limite di essere autocentrato -poiché dipendente dalla propria storia e dal contesto-, ma che, di conseguenza, appunto per restare aperto, si deve porre come problema/criticità il riconoscimento da parte di un eventuale esperto delle conclusioni a cui giunge.

Ecco, dunque, che appaiono sempre più evidenti, e tra loro contrastanti, due modi contrapposti di interpretare l’autonomia.

Il primo colloca l’Istituzione scolastica in un ambiente competitivo e in un orizzonte strategico in cui la scuola dovrebbe assumere i connotati, sia pure riveduti e corretti, della organizzazione aziendale, sviluppando l’efficacia e l’efficienza delle proprie azioni. Il secondo modo di interpretare l’autonomia, invece, fa proprio un orizzonte in cui si assume come positivo (per le persone, ma anche per il micro, il meso e il macro sistema, secondo la distinzione di G. Bateson) il diffuso bisogno di comunità, che risponde ad una concezione del sapere e della conoscenza intesi come comunicazione, condivisione, cooperazione, scambio e confronto solidale.

“Pensare l’autonomia” significa allora tendere a valorizzare l’organizzazione e le sue procedure, ma attraverso la valorizzazione dei legami e delle relazioni tra le persone.

Come dire che promuovere la sensibilità umana e professionale fa sì che si possa costruire la comunità scolastica.

[1] Nel panorama italiano, tra le innovazioni citate manca ancora la riforma degli organi collegiali.

Costanza Cavaliere e Aladino Tognon