L’insegnamento alternativo alla religione deve essere attivato

Sentenza Consiglio di Stato 7 maggio 2010, n. 2749   

[L’insegnamento della religione cattolica, una volta che lo studente abbia scelto di avvalersene, si configura come obbligatorio; conseguentemente il profitto dello studente può essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico. La partecipazione degli insegnanti della religione cattolica (o gli insegnamenti alternativi) alle deliberazioni del consiglio di classe ai fini dell’attribuzione del credito scolastico non danno luogo ad alcuna forma di discriminazione o condizionamento. Non sussiste condizionamento o discriminazione perché è da escludere la circostanza che una valutazione così importante e profonda come quella sottesa alla scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico. L’omessa attivazione dell’insegnamento alternativo incide sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di seguire l’ora di religione potrebbe, infatti, essere pesantemente condizionata dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza, sia pure indirettamente, comprime un altro valore costituzionale, che è il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost.]
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
Sul ricorso numero di registro generale 7324 del 2009, proposto da:
Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;
contro
Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (Ciei), Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Comitato Torinese per la Laicità della Scuola, Crides – Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella Scuola, Associazione Democrazia Laica, Associazione Scuola Università Ricerca Assur, Associazione Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno, Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno, Federazione delle Chiese Pentecostali, Alleanza Evangelica Italiana, Associazione per la Scuola della Repubblica, Comitato Bolognese Scuola e Costituzione, Cidi – Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, Ucei – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Mce Movimento di Cooperazione Educativa, Fnism Federazione Nazionale Insegnanti, Cgd Coordinamento Genitori Democratici, Arianna Tassinari, Chiesa Evangelica Valdese, rappresentati e difesi dagli avv. Fausto Buccellato, Massimo Luciani, con domicilio eletto presso Fausto Buccellato in Roma, viale Angelico 45; Tavola Valdese, Associazione Xxxi Ottobre Per Una Scuola Laica e Pluralista (Promossa Dagli Evangelici Italiani), Chiesa Evangelica Luterana in Italia, Unione Cristiana Evangelica Battista D’Italia, Filippo Bagni, Ruben Segre, Alessandro Fusaroli; Organizzazione Sindacale Cobas Scuola, rappresentato e difeso dall’avv. Arturo Salerni, con domicilio eletto presso Arturo Salerni in Roma, viale Carso, 23; Conferenza Episcopale Italiana, rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Gigli, Franco Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello 55;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III QUA n. 07076/2009, resa tra le parti, concernente D.M. “ISTRUZIONI E MODALITÀ PER LO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI STATO” – MATERIA RELIGIONE CATTOLICA.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni e di Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (Ciei) e di Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e di Comitato Torinese per la Laicità della Scuola e di Crides – Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella Scuola e di Associazione Democrazia Laica e di Associazione Scuola Università Ricerca Assur e di Associazione Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno e di Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti e di Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e di Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno e di Federazione delle Chiese Pentecostali e di Alleanza Evangelica Italiana e di Associazione per la Scuola della Repubblica e di Comitato Bolognese Scuola e Costituzione e di Cidi – Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti e di Ucei – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e di Mce Movimento di Cooperazione Educativa e di Fnism Federazione Nazionale Insegnanti e di Cgd Coordinamento Genitori Democratici e di Organizzazione Sindacale Cobas Scuola e di Conferenza Episcopale Italiana e di Arianna Tassinari e di Chiesa Evangelica Valdese;
Visto l’atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale proposto dal ricorrente incidentale Cei – Conferenza Episcopale Italiana, rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Gigli, Franco Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello 55;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 marzo 2010 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati l’Avv. dello Stato Volpe, e gli Avv.ti Luciani, Scoca e Damizia per delega di Salerni;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Con i ricorsi di primo grado, la Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, altre associazioni laiche e atee, altre istituzioni cristiane ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione superiore che avevano scelto di non avvalersi né della religione cattolica, né di insegnamenti sostitutivi hanno chiesto l’annullamento delle ordinanze relative alla disciplina dell’attribuzione dei crediti scolastici per gli esami di maturità per l’anno scolastico 2006-2007 e 2007-2008 nella parte in cui si prevede:
– che i docenti che svolgono insegnamento della religione cattolica partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento; che analoga posizione completa, sia riconosciuta in sede di attribuzione del credito scolastico ai docenti delle attività didattiche formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime (all’art. 8, punto 13);
– che l’attribuzione al punteggio, nell’ambito della banda di oscillazione, tenga conto, oltre che degli elementi di cui all’articolo 14 comma 2 del d.p.r. 323 del 23 luglio 1998, del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse col quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ed il profitto che ne ha tratto; ovvero le altre attività, ivi compreso lo studio individuale, che si sia tradotto in un arricchimento culturale disciplinare specifico, purché certificato valutato alla scuola secondo modalità deliberate dalla istituzione medesima;
– che gli alunni che abbiano scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare alle iniziative formative in ambito scolastico potessero far valere tali attività esclusivamente come crediti formativi soltanto in presenza dei requisiti previsti dal D. M. 49 del 24 febbraio 2000 (art. 8, punto 14).
2. Il T.a.r. ha accolto i ricorsi rilevando che le ordinanze impugnate si ponessero in contrasto con il principio di laicità dello Stato, come definito dalle sentenze costituzionali n. 203/1989 e n 334/1996).
Secondo il primo giudice, in particolare, “un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alal fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede stessa”.
Sotto tale profilo, sarebbe dunque evidente “l’irragionevolezza dell’ordinanza che, nel consentire l’attribuzione di vantaggi curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilità alla misura della adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito”. Tale circostanza, del resto, prosegue il T.a.r. riguarderebbe gli stessi alunni che hanno aderito al’insegnamento della religione con un consapevole convincimento, ma il cui profitto potrebbe essere condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede.
La sentenza di primo grado osserva ancora che “per comune esperienza di vita, nelle nostre scuole (metropolitane e non) le c.d. materie alternativa – concernendo comunque una minoranza della popolazione scolastica – spesso o non vengono attivate affatto per mancanza di risorse ovvero nella realtà delle cose si riducono al semplice “parcheggio” degli alunni in qualche aula. […]. Il che in concreto comporta che le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione in cui non credono; ovvero a subire un ulteriore discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico e culturale”. Da qui la conclusione, secondo cui il sistema complessivo avrebbe l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza, garantita dalla Carta Costituzionale e dall’art. 9 del Concordato, in vista di un punteggio più vantaggioso nel credito scolastico.
3. Avverso tale decisione hanno proposto appello, chiedendone la riforma, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Istruzione. Ha proposto appello, mediante ricorso incidentale, anche la C.E.I. – Conferenza Episcolare Italiana.
4. Gli appelli principale e incidentale possono essere esaminati congiuntamente perché si fondano, in gran parte, su censure comuni.
Gli appellanti in particolare deducono:
a) l’inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti (associazioni e studenti);
b) l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai controinteressati (da individuarsi negli studenti che abbiano optato per l’insegnamento della religione cattolica o per gli insegnamenti alternativi, oltre che negli insegnanti di religioni)
c) l’erroneità nel merito della sentenza, rilevando che in base alle disposizioni vigenti l’insegnamento della religione cattolica non può che essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico, specie alla luce del disposto dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 323/1998;
l’assenza di qualsiasi violazione ai principi costituzionali della libertà religiosa e di laicità dello Stato.
5. Gli appelli meritano accoglimento.
6. Occorre, anzitutto esaminare, l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse e per difetto di legittimazione.
L’eccezione non può essere accolta.
Come ha correttamente rilevato il giudice di primo grado, l’interesse fatto valere non è quello immediatamente collegato ad un’utilità di carattere strumentale od economico concernente la concreta valutazione dei risultati scolastici o le conseguenze che potrebbero eventualmente derivare da tali valutazioni sul mercato del lavoro.
I ricorrenti di primo grado deducono la lesione della libertà religiosa, che, a loro dire, verrebbe compromessa dalle ordinanze impugnato laddove queste riconoscono sia agli insegnanti della religione cattolica, sia a quelli dei corsi formativi alternativi di partecipare ai consigli di classe ai fini dell’attribuzione del credito scolastico. In tal modo, sostengono gli originari ricorrenti, si crea una discriminazione in danno a coloro che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, né optano per un corso alternativo, il tutto in lesione con il valore costituzionale della libertà religiosa.
Stabilire se questo tipo di censura sia o meno fondata è questione di merito, non di rito. Non rileva, quindi, ai fini del riconoscimento della legittimazione e dell’interesse al ricorso.
Ai fini dell’ammissibilità ciò che rileva è solo la constatazione che sia le associazioni ricorrenti (che perseguono ideali laici o professano religioni diversa da quella cattolica), sia gli studenti che non si avvalgono né dell’insegnamento della religione, né dei corsi alternativi si trovino in una posizione differenziata rispetto al quisque de populo rispetto alla contestazione di un provvedimento che essi assumono lesivo della propria libertà religiosa, perché, secondo la loro tesi, collocherebbe l’insegnamento della religione cattolica su un piano di superiorità, interferendo con il diritto (riconosciuto dalla Corte costituzionale) di scegliere, senza condizionamenti, non avvalersi di tale né di tale insegnamento né di corsi alternativi.
L’utilità che essi sperano di trarre dall’accoglimento del ricorso è quindi di carattere ideale, immateriale, ed è certamente utilità che deve trovare spazio in sede giurisdizionale perché collegata ad un valore fondamentale della Carta costituzionale, quale è, appunto, quello della libertà religiosa.
L’ascrizione della libertà religiosa tra i diritti civili di rango costituzionale (art. 19 Cost.) ne assicura, in definitiva, la tutela avverso gli interventi potenzialmente limitatori di matrice amministrative.
Stabilire poi se effettivamente i provvedimenti impugnati arrechino o meno tale vulnus alla libertà religiosa è, come si è detto, questione di merito, che come tale non incide sul riconoscimento della legittimazione e dell’interesse al ricorso.
7. Ugualmente infondata è l’eccezione di inammissibilità per omessa notifica ai controinteressati, in quanto, trattandosi di atti di contenuto generale non sussistono, per pacifica giurisprudenza, controintressati in senso tecnico-giurico.
8. I ricorsi vanno, quindi, esaminati nel merito.
Al riguardo, occorre prendere le mosse dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che si è occupata dell’insegnamento della religione cattolica e sulle norme che lo prevedono.
La norma fondante l’insegnamento della religione cattolica in Italia è, come noto, l’art. 9, numero 2, dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (ratificato ed eseguito dall’Italia con la legge n. 121 del 1985, ”.
Tale disposizione normativa si compone di tre proposizioni.
La prima afferma che “la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”.
La seconda specifica che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”.
La terza prevede che “all’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
9. Come ha affermato la Corte costituzionale nella storica sentenza n. 203/1989, con questa terza proposizione il principio di laicità è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
La Corte specifica che dal principio di non discriminazioni ivi consacrato deriva che “la previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell’insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l’una e l’altro lo schema logico dell’obbligazione alternativa, quando dinanzi all’insegnamento di religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Con la successiva sentenza n. 13 del 1991, la Corte aggiunge che “il valore finalistico dello <<stato di non obbligo>>, è di non rendere equivalenti e alternativi l’insegnamento di religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall’esterno della coscienza individuale l’esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l’interiorità della persona.
Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli studenti che scelgono l’insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall’offerta di opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole l’insegnamento di religione cattolica, l’alternativa è tra un si e un no, tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non avvalersene. A questo punto la libertà di religione e garantita: il suo esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun rapporto con la libertà di religione. Lo <<stato di non-obbligo>> vale dunque a separare il momento dell’interrogazione di coscienza sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle libere richieste individuali alla organizzazione scolastica”.
10. Occorre allora chiedersi, proprio partendo da tali preziosi insegnamenti del Giudice delle leggi, se le ordinanze ministeriali impugnate si pongano in contrasto con i principi costituzionali in materia di libertà religiosa, discriminando, come sostengono gli originari ricorrenti, coloro che non scelgono nessuna attività formativa alterativa, ed interferendo, quindi, sulla loro libertà di scelta in materia religiosa.
Al quesito, secondo il Collegio, si deve dare risposta negativa.
Nessun passaggio delle motivazioni delle citate sentenze costituzionali consente di escludere che la condotta scolastica tenuta dall’alunno che decida di avvalersi dell’insegnamento della religione o di un insegnamento alternativo possa essere oggetto di valutazione e rilevare così ai fini del giudizio finale.
Anzi, sotto alcuni profili, le citate sentenze costituzionali contengono elementi a favore della legittimità della scelta ministeriale.
Ai fini che qui ci interessano, le principali statuizioni della Corte possono essere così sintetizzate.:
a) l’alternativa all’insegnamento della religione cattolica non può essere l’obbligo di seguire un corso alternativo (dato che altrimenti ricorrerebbe lo schema dell’obbligazione alternativa e la facoltatività dell’insegnamento religioso non sarebbe rispettata), ma non può che essere uno “stato di non obbligo”, che può avere tra i suoi contenuti anche quello di non presentarsi o allontanarsi da scuola;
b) nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi non può vedersi una causa di discriminazione indiretta nei confronti di quanto scelgano di avvalersi della religione o un fattore che può interferire nella loro scelta (un cattolico potrebbe scegliere di non seguire l’ora di religione pur di avere un minore impegno scolastico), perché le famiglie e gli studenti che scelgono l’insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall’offerta di opzioni diverse;
c) assicurata la scelta tra avvalimento e non avvalimento, la libertà di religione è assicurata e le varie opzioni presentate ai non avvalentisti non hanno alcun rapporto con la libertà di religione;
d) l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, ma, precisa la Corte costituzionale con la sentenza n. 203/1989, l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.
11. Come si diceva, da queste sentenze non si può dedurre l’illegittimità dell’ordinanza ministeriale che consente la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione o dei corsi alternativi frequentati dai non avvalentisi.
Né si può dire che tale partecipazione andrebbe ad interferire con lo “stato di non obbligo”, condizionando la libertà di scelta di coloro che non decidono di non seguire alcuna attività alternativa, o discriminandoli in sede di giudizio scolastico.
Non esiste al contrario alcun condizionamento, né alcuna discriminazione.
Non esiste condizionamento, perché, riprendendo le stesse parole usate dalla Corte costituzionale per affrontare la questione se il minor impegno dei non avvalentisi potesse condizionare la scelta degli avvalentisi, si può certamente affermare che le famiglie e gli studenti che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione e di non seguire alcuna attività formativa hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dal fatto che l’insegnante di religione (o l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico. Una scelta legata a valori così profondi, come quelli che vengono qui in esame, non può essere condizionata da valutazioni di stampo più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio (peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione del rendimento scolastico.
E’ senz’altro da escludere, insomma, che una valutazione così importante e profonda possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico. Vantaggio che, fra l’altro, è del tutto eventuale, sia perché, lo studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione (o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e quindi incidere negativamente credito scolastico).
Del resto, afferma ancora la Corte costituzionale, l’insegnamento della religione è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un insegnamento obbligatorio. Nasce cioè l’obbligo scolastico di seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento (a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico. Le stesse considerazioni valgono per gli insegnamento alternativi che, una volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori.
Insomma tutte l’attività scolastico dell’alunno deve essere valutata ai fini del credito scolastico, che esprime appunto un punteggio per la carriera scolastica complessiva, ivi inclusa la condotta e il posta in essere e il profitto raggiunto nell’ambito di quei corsi che, originariamente facoltativi, diventano obbligatori in seguito alla scelta fatta.
Se si parte dal presupposto (non seriamente dubitabile alla luce proprio delle sentenze costituzionali) secondo cui l’insegnamento della religione (o di altro corso alternativo) diviene obbligatorio dopo che è stata effettuata la scelta, allora non si vede la ragione per la quale la valutazione dell’interesse e del profitto con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione non debba essere valutato.
Non vi è neanche alcuna discriminazione a carico dei non avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.
Il credito scolastico, infatti, è il punteggio per l’andamento degli studi, e risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente durante il corso dell’anno. Pertanto, uno studente che, pur non avvalendosi dell’insegnamento della religione e non optando per insegnamenti alternativi, abbia comunque un alto rendimento scolastico riuscirà ugualmente a raggiungere il massimo in sede di attribuzione del credito scolastico, senza essere in alcun modo pregiudicato o discriminato in conseguenza della scelta fatta nell’esercizio della libertà religiosa. Egli non può certo pretendere di essere valutato per attività che, nell’esercizio di un diritto costituzionale, ha deciso di non svolgere, ma non può nemmeno pretendere che tali attività non siano valutabili a favore di altri che, nell’esercizio dello stesso diritto costituzionale, hanno deciso di svolgerle. E’ la stessa Corte costituzionale a parlare di minore impegno scolastico dei non avvalentisi che non svolgono attività alternative (Corte cost. n. 13/1991)
12. Del resto, chi segue l’insegnamento della religione (o di altro corso alternativo) non avrà per ciò solo automaticamente un punteggio aggiuntivo in sede di credito scolastico, ma si terrà conto, ai fini dell’attribuzione del punteggio che valuta la sua carriera scolastica, anche del giudizio espresso dall’insegnante di religione o di altro insegnamento sostitutivo.
Che di questo giudizio si debba tener conto deriva dal fatto che, per chi si avvale, l’insegnamento della religione diventa insegnamento obbligatorio. Ne discende la necessità di valutare in senso positivo o negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.
Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione alla rovescio, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento alternativo.
In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi, arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che, dunque, ha il diritto-dovere di frquentarlo e di essere valutato per l’interesse e il profitto dimostrato.
13. Né sarebbe corretto ritenere che per effetto delle ordinanze in questione l’insegnamento della religione dia, per ciò solo, diritto ad un credito scolastico. Al contrario, le ordinanze ministeriali prevedono soltanto che nella valutazione dello studente, si tenga conto anche dell’interess econ cui ha seguito l’ora di religione (o di corso alternativo), sul presupposto, avallato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che, effettuata la scelta, nasca un obbligo scolastico il cui adempimento da parte dello studente deve essere oggetto di valutazione.
A favore di tale conclusione depone, a livello legislativo, la previsione dell’art. 309 d.lgs. n. 297/1994 che, come ricordato anche dalla Corte costituzionale (n. 390/1999), stabilisce che gli insegnanti di religione “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti”.
14. Non si ravvisa neanche un contrasto con l’art. 205, comma 4, d.lgs. n. 297/1994, ai sensi del quale “per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Gli originari ricorrenti sostengono che da questa norma deriverebbe il divieto per gli insegnanti di religione cattolica di dare voti, il che escluderebbe la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico e di prendere in considerazione il loro giudizio.
Tale conclusione non può essere però condivisa.
Le ordinanze in questioni non prevedono, infatti, che l’insegnante di religione attribuisca un voto, ma solo che nell’attribuzione del punteggio, nell’ambito dalla banda di oscillazione, si tenga conto del giudizio (non del voto appunto) riguardante l’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto. In altri termini, quella “speciale nota” cui fa riferimento l’art. 205, comma 4, cit. pur non potendosi tradurre in un voto numerico contiene necessariamente un giudizio sull’attività svolta dall’alunno. Le ordinanze in questione si limitano a prevedere che tale giudizio diviene ora uno degli elementi valutabile ai fini dell’attribuzione del punteggio nell’ambito della sola banda di oscillazione prevista dalla tabella allegata al D.P.R. n. 323/1998 che, all’art. 11, disciplina il credito scolastico.
15. Per comprendere ancora meglio perché le ordinanze impugnate non diano luogo ad alcuna forma di discriminazione, né si pongano in contrasto con le previsioni di legge, giova spendere qualche parola sulle modalità di calcolo del cosiddetto credito scolastico.
Il credito scolastico trova la sua disciplina nell’art. 11 D.P.R. n. 323/1998 il quale prevede: “Il consiglio di classe attribuisce ad ogni alunno che ne sia meritevole, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della scuola secondaria superiore, un apposito punteggio per l’andamento degli studi, denominato credito scolastico. La somma dei punteggi ottenuti nei tre anni costituisce il credito scolastico che, ai sensi dell’articolo 4, comma 6, si aggiunge ai punteggi riportati dai candidati nelle prove d’esame scritte e orali. Per gli istituti professionali e gli istituti d’arte si provvede all’attribuzione del credito scolastico, per il primo dei tre anni, in sede, rispettivamente, di esame di qualifica e di licenza”. (comma 1).
Il comma secondo continua prevedendo che “Il punteggio di cui al comma 1 esprime la valutazione del grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell’anno scolastico in corso, con riguardo al profitto e tenendo in considerazione anche l’assiduità della frequenza scolastica, ivi compresa, per gli istituti ove è previsto, la frequenza dell’area di progetto, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi. Esso è attribuito sulla base dell’allegata tabella A e della nota in calce alla medesima”.
Dalla tabella allegata al regolamento si evince che il punto di partenza per l’attribuzione del credito scolastico è la media dei voti (in questa fase non rileva quindi il giudizio dell’insegnate di religione e di altre corsi alternativi che non esprimono propriamente un voto).
Ad ogni voto o fascia di voti corrisponde un punteggio in termini di credito scolastico. Il punteggio non è fisso, ma oscilla tra un minimo e un massimo nell’ambito della c.d. banda di oscillazione (che varia di un punto). Ad esempio, chi al terzo anno ha la media del 6 può avere un credito scolastico tra 4 e 5 punti; chi ha una media compresa tra 6 e 7 può avere u n credito scolastico che varia tra 5 e 6 e così via. Questo significa, evidentemente, che, pur in presenza della stessa media di voti, un alunno può avere un credito scolastico maggiore perché gli viene riconosciuto quel punto aggiuntivo previsto dalla c.d. banda di oscillazione.
Il regolamento prevede che il credito scolastico da attribuire nell’ambito delle bande di oscillazione va espresso in numero intero e deve tenere in considerazione, oltre alla media dei voti, anche l’assiduità della frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi.
16. E su questo quadro normativo che intervengono le ordinanze impugnate, le quali si limitano a prevedere che, ai fini dell’attribuzione del credito scolastico nell’ambito della banda di oscillazione, si tiene conto anche del giudizio formulato dai docenti di religione o di insegnamenti alternativi.
Il loro giudizio è quindi solo uno dei tanti elementi da prendere in considerazione, nell’ambito di un giudizio complessivo sulla carriera scolastica e sul comportamento dell’alunno, al fine dell’attribuzione di un punto.
Il che non vuol dire – questo va ribadito – che chi non segue religione (o l’insegnamento alternativo) non possa avere questo punto in più: potrà comunque averlo sulla base degli altri elementi che la legge considera rilevanti (media dei voti, l’assiduità della frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi).
Chi segue religione (o l’insegnamento alternativo) non è avvantaggiato né discriminato: è semplicemente valutato per come si comporta, per l’interesse che mostra e il profitto che conegue anche nell’ora di religione (o del corso alternativo). Chi non segue religione né il corso alternativo, ugualmente, non è discriminato né favorito: semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri elementi valutabili a suo favore.
17. Occorre, tuttavia, a questo punto, affrontare un problema che, pur non rientrando nel thema decidendum del presente giudizio, è stato tuttavia oggetto di specifica di trattazione da parte del primo giudice: ovvero la constatazione che in molte scuole gli insegnamenti alternativi all’ora di religione non sono attivati, lasciando così agli studenti che non intendono avvalersi come unica alternativa quella di non svolgere alcuna attività didattica. Si tratta di un argomento che, come si ricordava all’inizio, è stato utilizzato dal T.a.r. per rafforzare la tesi della illegittimità delle ordinanze impugnate.
Pur non essendo specificamente dedotto nei motivi di ricorso, la preoccupazione manifestata dal giudice di primo grado va tenuta nella massima considerazione.
Non vi è dubbio, infatti, che la mancata attivazione dei corsi alternativi rischi di mettere in crisi uno dei presupposti su cui si fondano le ordinanze impugnate, che, nel mettere sullo stesso piano, ai fini della valutazione come credito scolastico nell’ambito della c.d. banda di oscillazione, l’insegnamento della religione e l’insegnamento dei corsi alternativi per i non avvalentisi, danno quasi per scontato che i corsi alternativi esistano ovunque.
Al contrario, è circostanza nota che in molte scuole i corsi alternativi non sono attivati e questo rischia di pregiudicare la libertà religiosa dei non avvalentisi e di compromettere la logica delle ordinanze in esame.
Infatti, nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di di non fare nulla (a parte eventuali iniziative individuali o di c.d. studio assistito).
La mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost.
Ciò evidentemente non contraddice il carattere facoltativo dell’insegnamento alternativo: tale insegnamento è, e deve restare, facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi obbligatoria per la scuola, specie alla luce della scelta compiuta nelle ordinanze della cui legittimità ora si discute.
Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico, perché altrimenti si alimenterebbe una situazione non coerente con quanto le stesse ordinanze impugnate sembrano invece presupporre.
18. In base alle considerazioni che precedono, gli appelli devono, in definitiva, essere accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve respingersi il ricorso di primo grado.
La complessità della materia, l’assenza di precedenti giurisprudenziali specifici e la serietà delle questioni sollevate, specie dal punto di vista etico e costituzionale, impongono la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie gli appelli principale e incidentale.
Spese compensate
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2010 con l’intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Roberto Garofoli, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 07/05/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Dirigente della Sezione