TAR Lazio continua a pensarla diversamente dalla Cassazione sul pasto domestico

Sentenza TAR Lazio 13 dicembre 2019, n. 14.368    

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1020 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da
-OMISSIS-rappresentati e difesi dagli avvocati Giorgio Vecchione, De Santis Laura, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Istituto Comprensivo -OMISSIS-Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Ufficio Scolastico Regionale Lazio, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
-OMISSIS-rappresentato e difeso dagli avvocati Angelo Annibali, Andrea Ruffini, Marco Orlando, Matteo Valente, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Angelo Annibali in Roma, via Sistina, 48 c/o Studio Aor Avv.;
per l’annullamento:
per quanto riguarda il ricorso introduttivo: l’accertamento del diritto soggettivo perfetto della minore -OMISSIS- ad essere ammessa a consumare i propri pranzi di preparazione domestica nel locale refettorio, unitamente e contemporaneamente ai compagni di classe, sotto la vigilanza e con l’assistenza educativa dei propri docenti, per condividere i contenuti educativi connessi al tempo mensa, e per la conseguente condanna-OMISSIS-ad adottare, senza ritardo, tutte le misure e gli accorgimenti di legge atti a disciplinare la coesistenza nel medesimo refettorio, di pasti di preparazione domestica e di pasti forniti dalla ditta comunale di ristorazione collettiva, oltre che per la condanna al risarcimento dei danni.
Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da -OMISSIS-il 19\7\2019 : l’annullamento della delibera del Consiglio di Istituto del 01.07.2019 con cui veniva reintrodotta nell’art. 32 del Regolamento di Istituto la vecchia dicitura “è obbligatorio usufruire del servizio mensa per tutti i bambini iscritti al tempo pieno, eccetto per i casi particolari, ed i genitori sono tenuti a presentare certificazione medica” che veniva sospesa prima con decreto presidenziale n. 5010/19 e, successivamente, con ordinanza n. 6011 del 13 settembre 2019;
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Istituto Comprensivo -OMISSIS-e di Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca e di Ufficio Scolastico Regionale Lazio e di -OMISSIS-
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 novembre 2019 il dott. Emiliano Raganella e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I ricorrenti impugnavano la circolare scolastica n. 84 del 22 novembre 2018 e l’art. 32 del Regolamento di Istituto -OMISSIS- atti che deponevano per la fruizione obbligatoria del servizio mensa comunale.
Riferiscono che: a) esercitano la potestà genitoriale sulla figlia -OMISSIS- frequentante la classe III A -OMISSIS-b) hanno deciso di iscrivere la figlia ad un modello scolastico a tempo pieno di 40 ore settimanali, comprensivo del tempo mensa e dopo mensa; c) fino a giugno 2016 era prassi che i minori che frequentassero i modelli scolastici comprensivi di tempo mensa, fruissero del servizio di ristorazione collettiva, generalmente erogato dall’Amministrazione comunale e percepito come obbligatorio; c) nel giugno 2016, però, la Corte di Appello di Torino, con la sentenza n. -OMISSIS- in accoglimento della domanda di decine di famiglie, per la prima volta, accertava la sussistenza del diritto di poter scegliere, in alternativa alla refezione scolastica, un pasto domestico da consumarsi nell’ambito delle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione; d) nonostante plurime comunicazioni della famiglia che rifiuta il servizio dandone pronta ed insistente disdetta, invocando la libertà di scelta nel rispetto dei principi sanciti dalla Corte di Appello di Torino e dal Consiglio di Stato (sent. -OMISSIS-la piccola -OMISSIS- all’ora della pausa mensa, viene regolarmente condotta con i compagni in sala mensa ed ivi le viene forzatamente somministrato il pasto fornito dalla ditta di ristorazione; contestualmente alla bambina viene categoricamente inibito di consumare quanto regolarmente fornito dalla famiglia in appositi contenitori termici ed ermetici nonostante diverse comunicazioni dirigenziali comunali della -OMISSIS- e della ditta di ristorazione apparentemente permissive.
Di tali atti veniva chiesta la sospensione cautelare che veniva concessa con ordinanza n. 1524 del 5 marzo 2019.
Con successivi motivi aggiunti impugnavano la delibera del Consiglio di Istituto del 01.07.2019 con cui veniva reintrodotta nell’art. 32 del Regolamento di Istituto la vecchia dicitura “è obbligatorio usufruire del servizio mensa per tutti i bambini iscritti al tempo pieno, eccetto per i casi particolari, ed i genitori sono tenuti a presentare certificazione medica” che veniva sospesa prima con Decreto Presidenziale n. 5010/19 e, successivamente, con ordinanza n. 6011 del 13 settembre 2019.
Si sono costituiti in giudizio -OMISSIS- società che gestisce il servizio di refezione scolastica presso il predetto Istituto.
In prossimità dell’udienza di discussione le parti articolavano le proprie argomentazioni con ulteriori scritti difensivi.
All’udienza pubblica del 19 novembre 2019 la causa veniva trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato.
Con il primo motivo del ricorso introduttivo hanno dedotto:
Violazione di legge con riferimento al D.Lgs 19 febbraio 2004 n. 59, ed alla circolare M.I.U.R. n. 29 del 5 marzo 2004;
Violazione di legge con riferimento all’art. 6 del D.lgs 13 aprile 2017 n. 63, al D.M. 31.12.1983 ed al D.L. 28.2.1983, n. 55 convertito in Legge 26.4.1983, n. 131;
Violazione di Legge con riferimento agli artt. 3, 32, 34, 35 della Costituzione;
Violazione di legge ed omessa applicazione della nota MIUR 7 marzo 2017, prot.n. 348;
Violazione di legge con riferimento alla Convenzione dei diritti del fanciullo approvata a New York in data 20 novembre 1989, ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176;
Violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 14, 16, 18, 19, 28 e 42 della legge n. 176/91;
Contraddittorietà manifesta.
Eccesso di potere sotto il profilo della disparità di trattamento e della violazione del principio generale di uguaglianza, della carenza assoluta di istruttoria e di motivazione, di illogicità, di arbitrarietà e di ragionevolezza.
I ricorrenti hanno richiamato i principi affermati nelle sentenza della Corte di Appello di Torino e nella successiva giurisprudenza civile nonché la Convenzione dei diritti del fanciullo, adottata a New York il 20 novembre 1989 e recepita in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176; e in particolare all’art. 2, comma 2 per il quale gli Stati adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente TUTELATO CONTRO OGNI FORMA DI DISCRIMINAZIONE o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, dalle opinioni professate o dalle convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.
La scelta dell’autorefezione, da leggersi come esplicazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte alimentari di cui all’art. 32 della Costituzione, sarebbe certamente una di queste.
Richiamano l’art. 28 comma 2, per il quale “gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento per vigilare affinché la disciplina scolastica sia applicata in maniera compatibile con la dignità del fanciullo in quanto essere umano e in conformità con la presente Convenzione”.
In questo quadro normativo internazionale che garantisce i più elementari diritti dei fanciulli alla non discriminazione, all’inclusione ed al trattamento dignitoso e decoroso, anche e soprattutto nel rispetto delle libere scelte della famiglia, i ricorrenti assumono la violazione di questi principi da parte della dirigente scolastica, la quale, a fronte di ben determinate scelte, costringe a fruire forzatamente di un servizio categoricamente rifiutato.
Richiamano, infine, la giurisprudenza amministrativa più recente che ha affrontato e risolto buona parte delle apparenti problematiche ostative al libero esercizio del diritto all’autorefezione. In tutti i vari procedimenti, radicati innanzi al Giudice Amministrativo nell’ambito della propria giurisdizione esclusiva ex art. 133, lett. c) del c.p.a., il tema della sussistenza del diritto all’autorefezione dei minori in ambito scolastico è sempre stato trattato e risolto in favore delle l rivendicazioni delle famiglie.
Con il secondo motivo di ricorso censurano le motivazioni addotte dalla dirigente scolastica per giustificare il sacrificio del diritto all’autorefezione scolastica.
L’amministrazione scolastica si è difesa essenzialmente richiamando le motivazioni adottate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 20504 del 30.07.2019, secondo cui “ Un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabile e, quindi, non può costituire oggetto di accertamento da parte del giudice ordinario, in favore degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado, i quali possono esercitare diritti procedimentali, al fine di influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, rimesse all’autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche, in attuazione dei principi di buon andamento dell’Amministrazione pubblica”.
In tema di imposizione del c.d. pasto domestico, l’amministrazione resistente richiama la pronuncia delle Sezioni Unite nella parte in cui ha sottolineato come: << Sono obiezioni che, tuttavia, non smentiscono e, anzi, dimostrano quella che sarebbe una impropria ingerenza dei privati nella gestione di un servizio che, per come organizzato dall’amministrazione scolastica, non prevede da parte del personale docente la vigilanza degli alunni che pranzano con il pasto domestico: il livello di attenzione dovuto dagli insegnanti verso gli alunni che usufruiscono della mensa (ove il cibo è controllato e calibrato secondo le esigenze individuali di salute, religiose ecc.) è diverso da quello che sarebbe richiesto in presenza di alunni ammessi al pasto domestico, anche per la possibilità di scambio di alimenti tra gli alunni >> (Cass. sent. n. 20504 del 30.07.2019).
Obietta che, qualora soltanto alcuni alunni fossero ammessi a consumare il proprio cibo in locali destinati allo scopo, l’amministrazione dovrebbe prevedere per la vigilanza un docente diverso da quello che presta la vigilanza nei locali adibiti a mensa.
Sarebbe, altresì, necessaria una diversa modulazione delle condizioni contrattuali per imporre al gestore del servizio la pulizia dei locali utilizzati dagli alunni che utilizzano il cibo domestico. Neppure si potrebbe trascurare l’esigenza che l’istituzione scolastica sia messa in condizione di controllare le fonti generatrici della responsabilità, contrattuale o da contatto sociale, cui è essa esposta per i danni subiti dagli alunni, provvedendo all’organizzazione del servizio pubblico dì istruzione reso al pubblico (cfr. Cass. 28 aprile 2017, n. 10516).
I due motivi di ricorso, stante la loro intima connessione, possono essere trattati congiuntamente.
Il Collegio ritiene di condividere i principi affermati nella sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1049/2016 che, dagli artt. 5 e 7 del D.Lgs. n. 59/2004, evince il principio secondo cui “il diritto all’istruzione primaria non corrisponde più al solo diritto di ricevere cognizioni, ma coincide con il diritto di partecipare al complessivo progetto educativo e formativo che il servizio scolastico deve fornire nell’ambito del tempo scuola in tutte le sue componenti e non soltanto a quelle di tipo strettamente didattico, ragion per cui il permanere presso la scuola nell’orario della mensa costituisce un diritto soggettivo perfetto proprio perché costituisce esercizio del diritto all’istruzione così come delineato”.
Il “tempo mensa”, se vissuto e condiviso tra tutti i membri della classe, rappresenta un essenziale momento di condivisione, di socializzazione, di emersione e valorizzazione delle personalità individuali, oltre che di confronto degli studenti con i limiti e le regole che derivano dal rispetto degli altri e dalla civile convivenza.
Il tempo mensa, dunque, è a tutti gli effetti tempo scuola.
Il servizio mensa, non può dirsi invece strettamente qualificante il servizio di pubblica istruzione e, pertanto, va tenuto distinto dal concetto di tempo mensa.
Le argomentazioni utilizzate dalle SS.U della Corte di Cassazione con la sentenza n. 20504 del 30 luglio 2019 nell’affermare che, nel vigente sistema scolastico italiano, tra le varie finalità educative proprio del progetto formativo scolastico, vi sarebbe quella della “educazione all’ alimentazione”, non appaiono persuasive.
Invero il richiamo al comma 5 dell’art. 4 del DL 12 settembre 2013 n. 104 per il quale “ il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, al fine di favorire il consumo consapevole dei prodotti ortofrutticoli nelle scuole, elabora appositi programmi di educazione alimentare, anche nell’ambito di iniziative già avviate. Con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali sono definite le modalità per l’attuazione del presente comma” non appare decisivo. In primo luogo il perimetro di operatività della norma (riguardante solo i prodotti ortofrutticoli) è emblematico dei limiti di validità della disposizione per poter trarre da essa il principio generale che l’educazione alimentare sia parte del sistema scolastico educativo nazionale, posto che l’alimentazione va ben oltre il consumo di frutta e verdura. In secondo luogo trattasi di norma programmatica di cui la Suprema Corte non indica se sia intervenuto il relativo decreto interministeriale di attuazione. Infine il servizio di ristorazione collettiva non è di competenza dell’amministrazione statale ma è gestito unicamente dalle amministrazioni comunali che offrono questo servizio se ed in quanto in grado di organizzarlo, stante anche la loro libertà di non erogarlo.
Ne è dato rinvenire nell’art. 9 del D.lgs. n. 59/2004 il concetto della consumazione del pasto insieme “condividendo i cibi forniti dalla scuola” richiamato dalla Suprema Corte.
Un conto, infatti, è la socializzazione che caratterizza il tempo mensa, un conto è l’obbligo di consumare e condividere lo stesso cibo.
Non è controverso, infatti, che il servizio di ristorazione scolastica previsto dal D.M. 31 dicembre 1983 è un servizio locale a domanda individuale, oneroso, facoltativo sia per l’Ente Locale, libero anche di non erogarlo, sia per l’utenza, libera di non servirsene.
Tale facoltatività reciproca è stata confermata dal recente D.lgs. n. 63/2017, il cui art. 6 prevede che i servizi di mensa sono “attivabili a richiesta degli interessati”.
All’interno di questo quadro normativo l’autorefezione, quale esplicazione del diritto costituzionale alla scelta alimentare tutelato dagli articoli 2 e 32 Cost., non comporta in alcun modo una modalità solitaria di consumazione del pasto, dovendosi, per quanto possibile, garantire, da parte dell’Amministrazione scolastica, la consumazione dei pasti degli studenti in un tempo condiviso che favorisca la loro socializzazione.
Altrimenti ragionando verrebbe ad essere leso il diritto di partecipare al “ tempo mensa” quale segmento del complessivo progetto educativo ovvero-fruendo della refezione scolastica per necessità ed in assenza di alternativa- si trasformerebbe il relativo servizio in servizio obbligatorio.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. -OMISSIS-ha ribadito che la scelta – di interdire senz’altro il consumo di cibi portati da casa (attraverso lo strumentale e previsto divieto di permanenza nei locali scolastici degli alunni che intendono pranzare con alimenti diversi da quelli somministrati dalla refezione scolastica) limita una naturale facoltà dell’individuo – afferente alla sua libertà personale – e, se minore, della famiglia mediante i genitori, vale a dire la scelta alimentare: scelta che – salvo non ricorrano dimostrate e proporzionali ragioni particolari di varia sicurezza o decoro – è per sua natura e in principio libera, e si esplica vuoi all’interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici.
Deve essere pertanto riconosciuto agli studenti non interessati a fruire del servizio mensa il diritto a frequentare ugualmente il tempo mensa, senza essere costretti ad abbandonare i locali scolastici in pieno orario curriculare.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, con la circolare 348 del 3 marzo 2017, rivolta ai direttori degli Uffici scolastici regionali, muovendo dagli enunciati della giurisprudenza richiamata che ha riconosciuto il diritto degli alunni di consumare il cibo portato da casa, ha confermato la possibilità di consumare cibi portati da casa, dettando alcune regole igieniche ed invitando i dirigenti scolastici ad adottare una serie di conseguenziali cautele e precauzioni.
Occorre pertanto, per poter legittimamente restringere da parte della pubblica autorità una tale naturale facoltà dell’individuo o per esso della famiglia, che sussistano dimostrate e proporzionali ragioni inerenti quegli opposti interessi pubblici o generali.
Nella specie, la restrizione praticata con gli impugnati provvedimenti non corrisponde ai canoni di idoneità, coerenza, proporzionalità e necessarietà rispetto all’obiettivo – dichiaratamente perseguito – di prevenire il rischio igienico-sanitario.
Invero i pasti di preparazione domestica, al pari delle merende del mattino, costituiscono un’estensione dell’attività di preparazione alimentare familiare autogestita, senza intervento di terzi estranei al nucleo familiare; la preparazione di questi è un’attività non assoggettata alle imposizioni delle vigenti normative in materia di igiene dei prodotti alimentari e delle imprese alimentari e relativi controlli ufficiali (Reg. C.E. n. 178/2004, C.E. n. 852/2004 n. 882/2004), non è soggetta a forme di autorizzazione sanitaria, né a forme di controlli sanitari, e ricade completamente sotto la sfera di responsabilità dei genitori o degli esercenti la potestà genitoriale, sia per quanto concerne la preparazione, sia per ciò che attiene la conservazione ed il trasporto dei cibi in ambito scolastico.
La sola competenza del dirigente e del corpo docente è quella che passa attraverso la vigilanza sui minori, volta ad evitare che vi siano scambi di alimenti, la stessa identica funzione che, presumibilmente, dovrebbero assolvere anche durante gli intervalli del mattino.
Né va particolarmente enfatizzata l’essenza della nota n. 41818 del 25.1.2018 della Regione Lazio che al fine di ridurre al massimo possibile il rischio alimentare connesso ai pasti, sia per quelli preparati in ambito domestico, sia per quelli preparati nel normale servizio refezionale, ha indicato alcuni accorgimenti tecnici ed organizzativi: percorso autonomo per i cibi domestici e, quindi, non commistione di alimenti; contenitori ermetici forniti dalle famiglie ai figli; adozione di misure idonee ad evitare scambi di cibi.
L’inidoneità del locale refettorio, argomento richiamato genericamente dalla Dirigente Scolastica, va affrontato e risolto facendo applicazione delle norme vigenti in materia di gestione del rischio nei luoghi di lavoro.
Competerà, quindi, all’Amministrazione scolastica ed a quella comunale adottare le corrette procedure per gestire i rischi da interferenze, con applicazione dell’art. 26, commi 3 e 3 ter del D.Lgs n. 81/08, applicabile al caso dei refettori scolastici, ossia con conseguente adeguamento del documento unico di valutazione dei rischi.
Tale ultima disposizione, recita, infatti “Nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente, il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto; l’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali”.
Spetterà, dunque, al datore di lavoro (dirigente scolastico) integrare il -OMISSIS- con riferimento esplicito ai rischi da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto in modo tale che questa integrazione, sottoscritta per accettazione dall’appaltatore, vada ad integrare gli atti contrattuali. Individuati rischi di interferenza non resta che determinare gli strumenti e “le misure per eliminare e, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo” i medesimi e tali misure non possono che essere costituite da un’adeguata formazione ed informazione rivolta al corpo docente cui la legge assegna la funzione di vigilanza ed assistenza educativa.
Conclusivamente il ricorso e i motivi aggiunti devono essere accolti e, per l’effetto, devono essere annullati gli atti impugnati con conseguente riconoscimento del diritto della minore -OMISSIS- ad essere ammessa a consumare i propri pranzi di preparazione domestica nel locale refettorio.
Deve, invece, essere respinta la domanda di risarcimento dei danni in quanto genericamente formulata.
La novità delle questioni trattate e le oscillazioni giurisprudenziali in materia giustificano la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini di cui motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la potestà genitoriale o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare il medesimo interessato riportato nella sentenza o nel provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Sapone, Presidente
Claudia Lattanzi, Consigliere
Emiliano Raganella, Primo Referendario, Estensore